DIO NON E’ MORTO.

 

Guccini si sbagliava, e non solo lui. Dio non è morto nei campi di sterminio. Dio si chiamava n. 4859 Witold Pilecki, si chiamava n. 16670 Massimiliano Kolbe, si chiamava n. 87 Don Zigmunt Ruszczak, e in mille altri modi, alcuni dei quali sono scritti in cielo perché qui, sulla terra, non è rimasta traccia. Witold Pilecki, è un militare dell’armata polacca, ufficiale di cavalleria è membro della resistenza antinazista e, dopo il 1945, della resistenza antisovietica. Lavora per l’intelligence polacca. Cresciuto in una famiglia cattolica, matura uno spiccato spirito di sevizio, di intraprendenza e di tenacia anche grazie alla sua esperienza militare e scout.

Nel 1940, durante un rastrellamento nazista a Varsavia, Witold, confezionata una falsa identità, si fa arrestare volontariamente per essere mandato ad   Auschwitz. Un gesto folle e pianificato. L’alto comando dell’esercito polacco ha affidato a Witold due compiti. Relazionare quanto avviene nei campi: “più ti attieni ai fatti nudi e crudi senza alcun tipo di commento, più tutto avrà valore”, avevano detto i suoi superiori. Un compito di grande importanza, poiché nessuno all’esterno sapeva cosa fossero realmente Auschwitz, Treblinka, Majdanek, Buchenwald, Dachau, nessuno sapeva con esattezza cosa accadesse lì. Il secondo compito consisteva nell’organizzare, nel campo, una rete clandestina di ribelli in modo da attivare una insurrezione interna concomitante con un attacco esterno di reparti militari. Witold strutturerà la resistenza interna con squadriglie di cinque persone i cui componenti si chiamavano con il loro numero, si scambiano messaggi senza chiamarsi per nome. Le squadriglie non sapevano una dell’altra per ridurre il rischio di essere individuati e riferire, sotto tortura, l’identità dei compagni. Avevano persino un assistente spirituale, era il coraggioso padre 87, Don Zigmunt Ruszczak. Le squadre reclutavano, confortavano i disperati, cercavano di posizionare i più deboli in posti di lavoro meno duri, guadagnavano la fiducia dei kapo per operare con maggiore libertà. Cercavano di fare sopravvivere, in quell’inferno, un po’ di umanità, un po’ di verità. La rete di squadre da 5 non sarà scoperta. Anche se il momento della rivolta non arriverà mai, nonostante che la rete operativa di Auschwitz fosse strutturata e funzionante, e fosse tanto efficiente da riuscire a prodigarsi, all’interno del campo, per lenire le indicibili sofferenze di tanti e soccorrere molte necessità, nonostante l’orrore quotidiano e le sofferenze inaudite cui erano sottoposti gli internati, nonostante le morti orribili di donne e bambini. Si riuscì a concepire persino un piano per la conquista dell’armeria delle SS. In quel contesto “uccidere la gente era un’altra cosa: più lo facevi, più la tua reputazione ne guadagnava”, come oggi, maggiore è la fedeltà alla moda corrente, al mainstream, più hai successo e sei accetto a chi comanda. In conseguenza delle fughe, le SS procedevano alle decimazioni, “Una volta fu scelto per caso un giovane detenuto, e a quel punto un vecchio prete si fece avanti e chiese al comandante del campo di prendere lui e di liberare il giovane”. Witold non sapeva di essere stato testimone del sacrificio di San Massimiliano Kolbe.

Le parate punitive di migliaia di internati, nel gelo, producevano centinaia di cadaveri e mentre il gelo, le infezioni e i pidocchi mietevano vittime, Witold continua a reclutare a creare squadre e tessere una organizzazione che, oltre tutto, genera speranza e coesione. Nel 1943 “ci fu un cambiamento nei sistemi di sterminio… migliaia di persone furono uccise ogni giorno col gas e col fenolo; il numero di individui portati quotidianamente alla camera a gas arrivava a 8.000” il regime nazionalsocialista aveva fretta. Gli appelli e le adunate erano segnate d un gong ma un giorno “fu sostituito da una campana appesa tra due pali vicino alla cucina. Era stata portata lì da qualche chiesa, e recava l’iscrizione: Gesù, Maria, Giuseppe. Dopo un po’ la campana si ruppe. I detenuti dicevano che non era riuscita a sopportare le scene del campo. Ne fu portata anche un’altra. Si ruppe anche quella. Al che ne fu portata una terza …. Durò fino alla fine. Quante emozioni poteva suscitare una campana di chiesa! ”. Dopo che un gruppo di detenuti tentò una rivolta soffocata nel sangue “per limitare la nostra capacità di riunirci e organizzarci, ci furono sottratte altre due ore di tempo libero domenicale”, Witold continuerà comunque a tenere unite e operativa l’intera organizzazione.

Il 27 aprile 1943, dopo tre anni di orrore quotidiano, Pilechki decide di fuggire e continuare la resistenza fuori. La fuga è rocambolesca ma ha successo, insieme a due suoi compagni riacquisterà la libertà. Una volta fuori, stende un rapporto definitivo, ne aveva già in inviati altri ai suoi superiori, su ciò che aveva visto e vissuto. La sua narrazione del campo di lavoro-sterminio di Auschwitz, è oggettiva, scevra da sentimentalismi e divagazioni poetiche o letterarie, è il rapporto di un infiltrato ai suoi superiori gerarchici, per questo colpisce forse più di altre testimonianze, e l’orrore insito nella narrazione è tale da essere, spesso, per un lettore comune, al limite della sopportazione. C’è chi afferma che “non tutto si può raccontare”, bene, Witold lo ha fatto. Dal rapporto emerge un personaggio con una grande fede nel suo compito, un infinito spirito di iniziativa e di  adattabilità, la capacità di conservare il senso del servizio, una salda fede cristiana che portano il suo cuore oltre l’ostacolo di quello che è stato un inferno sulla terra. “Ora vorrei dire cosa ho provato quando sono tornato tra i vivi … A volte era come se mi aggirassi in una grande casa e d’improvviso aprissi la porta di una stanza dove c’erano solo bambini: … Ah, i bambini stanno giocando…”. Quei bambini siamo noi, spalmati sui nostri divani davanti la tv, indeboliti dalle nostre abitudini borghesi. Witold scrive che Auschwitz è stato il luogo in cui “una forza distruttiva stava chiaramente tentando di cancellare il confine tra falso e vero”, una cancellazione che dalla primavera del 1941 ebbe come sfondo musicale, l’orchestra di Auschwitz, dove i bravi musicisti non mancavano. I criminali nazionalsocialisti erano acculturati ed amavano la musica. Non sempre dalla cultura scaturisce lai sapienza. Questa forza distruttiva è ancora tra noi, viva, vegeta e operante, è la radice di tutte le violenze, è la menzogna che si fa verità: “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi!   “Liberi dal campo… dalla coscienza … libera l’anima dal corpo… mandando quel corpo al crematoio…” .

L’8 maggio 1948, a Varsavia, la polizia segreta arresta e tortura Witold Pilecki, reo di opposizione al regime comunista polacco. Witold dirà ad un familiare venutolo a trovare che “Auschwitz era stato un gioco da ragazzi rispetto al trattamento riservatogli dai suoi compatrioti addestrati dai sovietici”.  Quello che i nazionalsocialisti avevano cominciato ad Auschwitz, sarà portato a termine dai comunisti il 25 maggio 1948, giorno in cui Witold sarà condannato e giustiziato. Il luogo della sepoltura di WITOLD PILECKI è ignoto. Solo dagli anni novanta del scorso secolo la sua storia è stata resa nota. Il Rabbino capo di Polonia, Michael Schudrich, scrive di Witold: “Quando Dio creò l’uomo, intendeva che fossimo tutti come il capitano Witold Pilecki, che Dio lo abbia in gloria. Possa la vita di Witold Pilecki ispirare tutti noi a fare una buona azione in più, di qualunque tipo, ogni giorno nella nostra vita”.

Paolo Piro

 

1 comment
  • Eunoia
    gennaio 25, 2021 at 9:02 am

    “Non sempre dalla cultura scaturisce la sapienza.” Straordinario! Quello che oggi spacciano per “cultura” è tuttologia priva di approfondimento e di vero studio. Ci si riempie la bocca di belle parole soltanto per attirare l’attenzione del popolo che può essere influenzato facilmente. Dovremmo imparare tutti ad approfondire certi argomenti senza lasciarsi ammaliare dai media e dai loro protagonisti.

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